Mostra fotografica alla riscoperta del fotografo bresciano Arturo Crescini (1933-2013).
La mostra, organizzata dall’associazione Il Biancoenero nel dicembre 2017, è un primo passo alla scoperta dell’archivio fotografico dell’autore.
Le stampe esposte sono riproduzioni (stampa ai pigmenti fine art su carta barytata) degli originali vintage dell’autore.
IL MAESTRO E’ NELL’ANIMA.
di Nino Dolfo
E’ stato uno dei grandi pittori della luce, ma ha preferito rimanere nel buio. Mannaggia a lui! Io sarei curioso di vederlo in faccia, Jan Vermeer, artista che peraltro sembra aver fatto ricorso alla camera oscura come mezzo per riprodurre la realtà che poi dipingeva sulla tela. E sarei doppiamente curioso soprattutto oggi in cui la sindrome del selfie è diventata l’apoteosi del narciso innecessario. E invece no, l’unico autoritratto di Vermeer è quello di spalle, nel quadro che rappresenta l’Allegoria della pittura, oggi al Kunsthistorisches Museum di Vienna.
L’autoritratto non è un atto di vanità, permette di cogliere l’essenza di un autore, il suo io più profondo, l’immagine che ha di sè e lo stile che lo contraddistingue. Nei secoli ritrarre il proprio volto è stato per qualunque pittore uno sfida, un tributo, un messaggio e una dichiarazione d’amore – o di conflitto – con se stesso. Per Rembrandt per esempio, ritrarsi, è stata un’ossessione (si parla di una cinquantina di dipinti, circa trentadue acqueforti, e sette disegni), un esercizio psicologico di riflessione intima durato quasi quarant’anni. Come scrive da dio il turco Orhan Pamuk in un suo bellissimo libro, Il mio nome è rosso (Einaudi), l’autoritratto pone un dubbio: il soggetto è guardato da noi o invece è lui che ci guarda?
Di Arturo Crescini ci rimangono alcuni pregnanti ritratti scattati da Vincenzo Cottinelli, che continuano a parlarci di lui: un uomo riservato, laterale, melanconico, discreto, che inseguiva i propri talenti con ostinata tenerezza e accigliata levità. Il maestro è nell’anima, canta Paolo Cionte in una sua canzone. Crescini appare come un uomo dolcemente autoironico che in un giorno d’aprile del 1999 – era sulla terrazza della casa di Giulio Obici a Muslone – sembra intento a osservare i fantasmi di una memoria lontana e poi si mette a scherzare con dei tappi di bibita sugli occhi, che prima sembrano visori ottici e poi negano l’orizzonte della realtà. Quasi una noticina da plaquette sullo sguardo, la fotografia e la conoscenza, perché ogni linguaggio dell’arte è simulazione, dissimulazione, ma anche sfida alle apparenze. Pura metafotografia. Jean Luc Godard, regista estremo e sperimentale in uno dei suoi ultimi film (Adieu au langage) cita una frase di Claude Monet, profeta della modernità: “Non dipingere ciò che si vede, visto che non vediamo niente, ma dipingere ciò che non si vede.”
Crescini è stato fotografo, alpinista, escursionista, botanico, bblicista e divulgatore scientifico. Ha amato visceralmente la fotografia, poi l’ha abbandonata, l’ha ripresa ad intermittenza. Oggi lo ricordiamo come uno degli esponenti di spicco del neorealismo fotografico bresciano. Ma le definizioni spesso stanno strette come stivaletti malesi, perché tra documento e poesia (lirica) esiste solo una impercettibile linea d’ombra.
E’ stato Italo Calvino nella prefazione de “Il sentiero dei nidi di ragno” (Einaudi, 1964), a dare del neorealismo una delucidazione più congrua, sostenendo che: “non è stata una scuola, ma piuttosto un insieme di voci, una scoperta delle diverse Italie fino ad allora inedite. Senza la diversità di quelle Italie, sconosciute le une alle altre, non sarebbe esistito il neorealismo”. Quelli del dopoguerra furono gli anni della scoperta dello “splendore del vero”, della cesura netta con i canoni estetici precedenti (formalismo, retoriche e ideologie bolse) per rimettersi al passo con i tempi cambiati. Furono gli anni dei viaggi da sud a nord, della ricostruzione, del boom economico. Anni di vitale importanza che hanno forgiato il carattere e l’identità italiana e che oggi, più che mai, si configurano di estrema attualità per la presenza dei temi affrontati: le migrazioni, le trasformazioni urbanistiche. C’era un’Italia minima, minore e vitale da riportare alla cronaca e alla coscienza collettiva. Un’Italia da fare riemergere dal buio dell’ignoranza. Un lavoro da fotografi. E i primi nomi che vengono in mente sono Enzo Sellerio, Mario Giacomelli, Nino Migliori, Fosco Maraini. Federico Patellani.
Il neorealismo è un’attenzione morale alla realtà, ma è anche soprattutto la riappropriazione soggettiva dello sguardo d’autore. Emblematicamente, nel giardino attiguo del cinema dell’epoca (neorealismo italiano, free cinema e nouvelle vague) la riscoperta della realtà fu accompagnata dall’affermazione di una soggettività creativa. Quello era il tempo di una febbre rinascimentale, di flâneur animati (Oskar Kokoschka diceva che l’anima è l’anagramma del suo nome: mania) dall’impegno etico della testimonianza, di chi sente il dovere di mostrare la normalità della vita e la sua eccezionalità. E prima ancora della testimonianza, guardare era un bisogno primario “politico”.
Arturo Crescini ha fatto parte di quella nuova onda, obbediente ad un istinto più che a un disciplinare di adesione. Insieme a Giuseppe Palazzi, Piero Vistali, Fausto Schena, Eros Fiammetti e Vincenzo Cottinelli ha vissuto dagli anni ’50 in poi la fase evolutiva della fotografia bresciana tra secessioni, rifondazioni (dal Cine Foto Club al Gruppo Tre Archi, a Il Biancoenero), perdite, nuovi sodalizi e smarcamenti.
Crescini è stato uno dei primi a porsi l’istanza di un racconto per immagini. Non tanto lo scatto in sé, l’istantanea rubata, ma la sequenza narrativa di più ampio respiro. Oggi lo avremmo chiamato storyteller con uno di quei lemmi imprestati dall’inglese che fanno tanto chic. Raccontare comporta una tecnica di scrittura efficace e potente – brevità, rigore di struttura, dettagli simbolici – per raggiungere il lettore in modo diretto. Il racconto è evocativo, la sua bellezza un lampo, e appunto per questo è più vicino alla poesia che al romanzo. Non è un caso che molte poesie di Raymond Carver siano diventate racconti e viceversa. L’autore di racconti è un cesellatore di cristalli e la misura aurea del racconto ha ben poco a che fare con le scritture brevi della contemporaneità (post di Facebook, i 140 caratteri richiesti per la composizione di un ‘cinguettio’ su Twitter, i vari hashtag con cui accompagniamo ed indicizziamo le nostre foto su Instagram), semmai ha un denominatore comune con le forme classiche (massime, epigrammi, aforismi…) della scrittura sapienziale. Anche la fotografia appartiene a questa area semantica ed espressiva. Deve dire tutto con l’immensamente piccolo e in un tempo risicato, perché l’eternità dura solo un attimo.
Crescini, reporter della quotidianità, racconta inevitabilmente il suo contesto storico – quel sapore vintage del passato prossimo che emanano oggi le sue immagini – ma anche la continuità dei modelli culturali che fanno da basso continuo alla storia del costume, come l’epica ludica dei giochi dei bambini (alla guerra, alle biglie, alle macchinine, le Cars d’antan), come le feste en plein air e i balli giovanili, con relativi approcci e acrobazie. Si sofferma con pudore sul ritorno del reduce, descrive l’approccio di due innamorati, tra atmosfere sospese e incrocio di sguardi, con il pudore maliardo di uno chansonnier francese, coglie la civetteria emancipata delle studentesse e fa la cronaca sportiva di una corsa ciclistica o di una partita di calcio, ribaltando l’asse ottico in chiave umanista, inquadrando i volti degli spettatori, siano essi gente comune o giovani sacerdoti dai rimandi giacomelliani per via di quei cappelli a falda larga. E ancora, racconta con acutezza e lettura di profondità i camionisti, i contadini, gli anonimi figuranti e paesaggi, lasciando trasparire fisiognomiche ruspanti intagliate nella pietra della fatica, vissuti e psicologie da decrittare, antropologie culturali e antinomie ideologiche retaggio della storia (quella casa in cui una scritta fascista si contrappone con un’altra di segno contrario, il tutto in un gioco di luci ed ombre, passato e presente).
Neorealismo, si diceva prima, ma i dati fenomenici si prestano anche a codici di lettura diversi e, quando meno te l’aspetti, vira all’astratto. Crescini sperimenta il nero su nero, cita le bottiglie morandiane, ritrova in natura geometrie insospettabili, grafismi, metafore, bagliori simbolici. Le sue immagini trasudano la bellezza dell’imperfezione, che è fatta di ricerca sperimentale, di manualità labotoriale, di arrangiamento chimico e meccanico per raggiungere l’effetto desiderato nella dinamica delle luci e delle ombre. Una sapienza artigianale che oggi è preistoria, sgretolata dalla manipolazione digitale e dalla grafica computerizzata, ma pur sempre sapienza fatta di genio, competenza e operosità, non di algoritmi. Crescini era un tecnoclasta, un nativo analogico che interpretava la fotografia come cerniera tra cultura e memoria. Rimando ad un passo esemplare del romanzo citato di Orhan Pamuk, che sembra un busillis ed esprime il senso della vita e dello sguardo: “Ricordare è sapere ciò che vediamo. Sapere è ricordare quello che vediamo. Vedere è sapere senza ricordare.”
Arturo Crescini,
ph. Vincenzo Cottinelli
18 Luglio 2019
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